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"Con il fango è una battaglia persa. Vince lui. Vince sempre lui. Perché diventa come il cemento e mandarlo via è impossibile". A parlare è Francesca Placci, una giovane donna di Faenza, che è stata colpita dalle alluvioni che hanno devastato la Romagna. Sono parole che potrebbero uscire dalla bocca di qualsiasi altra persona alluvionata, perché il più  delle volte è con il fango che si combatte, un fango che sembra non andarsene mai del tutto. 

Tra il 1° gennaio 2023 e il 31 dicembre del 2024, la lotta con il fango è stata una costante della Romagna colpita da tre alluvioni: il 3 e il 16 maggio 2023 e il 19 settembre 2024. Non lontano, nel bolognese, l’acqua è tornata a colpire anche il 18-19 ottobre 2024. Una sequenza drammatica che però non è isolata. Nello stesso periodo le alluvioni in Europa sono state 32 in 17 paesi. Lo raccontano i dati di Copernicus, il servizio di osservazione della Terra del programma spaziale europeo, che un team giornalistico (di cui Facta.eu ha fatto parte) ha raccolto e analizzato.

 

 

Ci sono l’alluvione del 29 ottobre 2024 a Valencia, in Spagna, e la serie che ha investito la Germania. Oltre a queste, molte altre sono state meno coperte dai media italiani, come per esempio quella che il 5 settembre del 2023 ha colpito la Tessaglia, in Grecia, ricoprendo di acqua e fango un territorio vastissimo. In generale, la Grecia è il paese europeo che in questo periodo ha subito l’impatto maggiore in termini di territorio alluvionato, con oltre 123 mila ettari. Seguono la Germania (107 mila) e la Spagna (54 mila).

L’Italia è al quarto posto con circa 40 mila, la maggior parte dei quali in Emilia-Romagna. Faenza, poco meno di 60 mila abitanti lungo la via Emilia, con le sue industrie della ceramica e un orgoglio sanguigno, ne è presto diventata un simbolo. Ma la sequenza di eventi ha fatto vacillare quel “tin bòta” (“tieni duro” in dialetto), espressione dello spirito locale fatto di maniche rimboccate e ostinazione.

 

Oltre i numeri e i dati

All’inizio di questa inchiesta è stato subito chiaro che i dati avrebbero aiutato a dare un’immagine più completa, facendo emergere come gli eventi alluvionali siano sempre più frequenti ovunque. I dati sono anche ciò che chi amministra un territorio guarda: quanti ettari di campi sono stati allagati? Quanta percentuale dell’area urbana? Sono indicatori importanti, che servono anche per calcolare i danni provocati. Ma rischiano di mettere in secondo piano l’esperienza personale di chi ha fatto fronte all’acqua e al fango, con tutte le conseguenze che ne derivano. Che sono sì economiche, ma anche psicologiche ed emotive. Per questo abbiamo scelto di raccogliere testimonianze di persone che vivono a Faenza.

 

 

Da dieci anni Silvia Wakte insegna ad Artistation, una scuola di musica che si trova vicino al Lamone, uno dei fiumi che hanno esondato. "La scuola è stata completamente distrutta. È stata una tragedia anche perché ci ha colpiti in un momento d’oro. Sai quando hai il sogno di diventare qualcosa di più grande? Noi ci stavamo provando: il fondatore aveva appena comprato i muri dopo aver passato 10 anni in affitto. Tutto svanito nel nulla".

A una settimana dall’inaugurazione della sede ricostruita dopo il 2023, l’alluvione del settembre 2024 ha portato con sé un'altra ondata di devastazione. "A quel punto tutti abbiamo dovuto tener duro a livello psicologico, perché il proprietario era a un passo dal mollare", continua Wakte emozionata. "Siamo abituati a un certo livello di precarietà, ma dopo tanti anni trovarsi quasi al punto di partenza non è semplice". Solo dopo la terza alluvione l’amministrazione è intervenuta mettendo a disposizione una sede provvisoria, un edificio che potrebbe essere ritirato da un momento all’altro.

 

 

Novella Laghi insegna in una scuola primaria. Abita in un edificio grande e antico, il “Mulino dell’isola”: la casa di famiglia da un paio di generazioni. Laghi, e le altre persone che vivono nel mulino (sei famiglie e quattro attività artigianali), raccontano di non aver ricevuto aiuto. La sua casa si trova a metà tra la campagna e la città. Se in campagna la pulizia è stata più veloce grazie alle ruspe e agli attrezzi prestati da amici e vicini, e in città c’è chi è riuscito a ricevere qualche supporto, "noi siamo stati completamente abbandonati", spiega Laghi. "Non voglio accusare il sindaco, perché mi rendo conto che si tratta di una situazione complessa, ma quando ha presentato il piano di aiuti, via San Martino, la mia via, non era presente». Laghi ha dovuto far sistemare il tetto con i pannelli solari, ha ricomprato le porte perché l’acqua se le era portate via, «e mi sono sentita dire che la nostra casa è indifendibile. Come si fa a convivere con questa cosa?".

 

Psicologia dell’alluvione

Oltre alle difficoltà materiali e alle spese, Laghi sente che l’alluvione l’ha cambiata. "Io sono sempre stata idealista. Anche in virtù del mio ruolo di insegnante nutrivo una discreta fiducia nei confronti dello Stato ed è quello che ho sempre insegnato a scuola. Oggi però sento che questa fiducia la sto perdendo perchè non vedo grandi possibilità di sostegno".

Istituzioni che sembrano lontane, incapaci di rispondere ai problemi immediati di chi si trova costretto ad abbandonare la propria casa. "Ci tengo a raccontare la mia storia perché mi sono sentita completamente abbandonata», racconta Simona Bacchilega che abita in centro storico. "Ognuno di noi ha dovuto arrangiarsi; non abbiamo ricevuto nessuna forma di aiuto, se non dai volontari e volontarie che hanno spalato il fango con noi". Non è stato un problema solo della fase iniziale: "anche più in là non si è fatto sentire nessuno. Io ho mandato una mail al sindaco, che tra l’altro è il mio capo dato che lavoro per il Comune, ma non ho mai ricevuto risposta. Sento di covare molto rancore perchè avrei voluto almeno che qualcuno venisse da me e dicesse: "Mi dispiace, vorrei aiutarti ma non riesco. Però come stai? E invece niente". Sui temi della distanza delle istituzioni e della percezione di lontananza abbiamo fatto richiesta di un’intervento da parte del sindaco di Faenza, ma non abbiamo ottenuto alcuna risposta.

Quelle di Laghi e Bacchilega sono reazioni comuni tra chi subisce traumi di questo tipo. Come spiega Raffaela Paladini, psicologa esperta in psicologia dell’emergenza, "a essere sovvertito non è solo il filo della quotidianità, ma anche l’ordine interno delle cose. Possono cambiare i nostri principi e la nostra scala di valori e in questo senso il rischio è che si instauri una forma di pensiero, e in generale un approccio psico-sociale, completamente differente".

Inoltre, il fatto che in molti casi i ristori arrivino in ritardo, o non arrivino affatto, opera anche una rottura all’interno del tessuto sociale. "La popolazione della Romagna è stata molto brava a far leva sul fattore resilienza", continua la psicologa. "Non sono mancati gli aiuti da parte di volontari e organizzazioni cittadine, ma il trauma, per sua natura, tende a creare isolamento, perché si sperimentano molte emozioni: dalla rabbia, al senso di colpa e di vergogna. Se, oltretutto, le istituzioni sono assenti, il rischio è che si sviluppi una tendenza individualistica e che ognuno faccia per sé".

 

Acqua, fango e rapporti umani

"Potete immaginare cosa significhi ritrovarsi con niente addosso? Io avevo solo un paio di mutande", sbotta Mire Emiliani, che non è ancora potuta rientrare a casa sua. "Ormai vivo giorno per giorno, ma prima non ero così. Da quando è arrivata l’acqua sono seguita da una psicologa dell’Asl. Però gli incontri non bastano e ad agosto finiranno. Ma io non so come starò nei prossimi anni". Emiliani viveva in una casa in affitto in centro, in via Lapi, che a Faenza è chiamata la “Bassa Italia” proprio perché è al di sotto del livello del fiume. Dopo l’alluvione ha passato un mese a casa di sconosciuti, per poi essere trasferita in un albergo, “Il Cavallino”. "Al Cavallino erano ospitate circa cento persone di tutte le età e di tutti i ceti sociali. Onestamente mi sarei aspettata maggiore collaborazione, invece ognuno pensava ai fatti suoi, mai che ci fosse un sorriso o la voglia di farsi forza a vicenda", conclude Emiliani. 

 

 

Anche Silvia Wakte ha registrato l’effetto dell’acqua sui rapporti umani. "Nella scuola in cui lavoro tra i vari colleghi c’è sempre stato un ambiente molto disteso, ma le cose sono cambiate dall’alluvione in poi", racconta. "Qualcuno se n’è andato e qualcun altro è stato allontanato. Tutt’ora ci portiamo dietro degli strascichi, ne parliamo spesso. In queste situazioni c’è un grande senso di frustrazione, i difetti di ognuno si ingigantiscono e si finisce a litigare in continuazione, anche per sciocchezze". 

Per questo il ruolo dei professionisti è determinante. Come dice Raffaela Paladini, "chi si occupa di psicologia dell’emergenza lavora proprio sulle connessioni del tessuto sociale e sulla condivisione, perché questo crea alleanze, benessere e solidarietà". Eppure, sebbene non siano un campione rappresentativo, tra le persone incontrate solo due si sono rivolte a una psicologa: Emiliani e M., una bambina che oggi ha 7 anni.

«Lei non era a casa la notte dell’alluvione, perché era da mia suocera», racconta la madre, Francesca Placci, con l’emozione che le strozza ancora la voce. "Abbiamo passato 15 giorni senza vederla perché non potevamo spostarci, fino a quando è tornata. Immaginate una bambina di 5 anni che esce di casa con tutta la sua cameretta in ordine e quando torna non vede più nulla. Da lì sono cominciate le prime domande: 'voi sareste potuti morire e io sarei rimasta sola?' A quel punto è crollata. E appena un anno dopo è arrivata l’alluvione di settembre a complicare le cose. Anche per me è stato difficile. Per la prima volta in vita mia ho sofferto di attacchi di panico e dormire è diventato impossibile". 

 

Spese a non finire

Uno dei problemi principali è quello dei costi, che spesso e volentieri sono più alti di quanto non ci si possa permettere. Francesca Placci, per esempio  ha dovuto cambiare lavoro, per aumentare le entrate: "prima facevo la cuoca in una mensa part-time. Ma mi sono dovuta licenziare. Oggi lavoro in una piadineria, sei giorni su sette, sette ore al giorno". La sua famiglia ha subito danni per 137 mila euro; di questi, 96 mila sono arrivati attraverso la piattaforma messa in piedi dalla Regione per i rimborsi, ma la prima metà è arrivata solo a inizio anno.

Lo stesso vale per Andrea Bazzocchi, bancario faentino che per un anno e mezzo ha vissuto con la moglie e il figlio in un monolocale in un altro comune, dormendo in tre su un letto matrimoniale. Bazzocchi ha ottenuto un risarcimento di circa 40 mila euro per i danni strutturali, mobili esclusi, per cui c’è stato un contributo una tantum, comunque non sufficiente. "Abbiamo speso 20 mila euro per i mobili, ma in 20 anni avevamo accumulato tante cose: quelle che fanno di una casa la tua casa. Ora dobbiamo ricomprare tutto, ma non abbiamo più 20 anni per ricostruire il nostro nido".

Paure per sé e le persone care, rapporti umani che si sono complicati, la sfiducia nelle istituzioni e la rabbia, una casa che non è più quella costruita con i propri ricordi: sono diverse declinazioni di un fango metaforico che si è attaccato addosso a chi ha subito l’alluvione e che a Faenza, come a Valencia o in Tessaglia, si farà molta fatica a scrostare. Al di là degli argini da ricostruire, delle strade da ripristinare, delle case da rendere nuovamente abitabili, l’alluvione ha toccato nel profondo anche altri aspetti della società e mostrano qualcosa che non c’è in nessun database: che “dopo l’acqua”, come alcune testimonianze si riferiscono alle alluvioni, è cambiato qualcosa dentro alle persone e nella società, e che probabilmente avrà conseguenze sul lungo periodo, quando le luci dei media si saranno ormai spente.

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