Non c’è più nulla di funzionante nella Striscia di Gaza. A prescindere dal fragile accordo mediato dall’amministrazione statunitense, la quasi totalità degli edifici è stata distrutta, così come tutte le infrastrutture e perfino i sistemi di gestione delle risorse di base, dall’acqua alla terra.
Produrre cibo, utilizzare acqua, respirare aria salubre sarà molto difficile per chiunque la abiterà, al di là di qualsiasi progetto di sviluppo futuro. Tra le tante componenti di un genocidio, come quello in atto a Gaza, ce n’è una che può sembrare meno rilevante di almeno 60mila morti, ma che nel lungo periodo rischia di condizionare anche più delle altre le probabilità di futuro per la popolazione, umana e non umana, della Striscia. Si tratta di una componente cruciale, definita ecocidio.
A Gaza, ma anche in parte in Cisgiordania, nei prossimi anni si potrà valutare la scala dell’ecocidio in corso, le sue dimensioni e declinazioni. La complessa verifica sul campo, per il momento, è impossibile. Quello che è già possibile, però, è mettere ordine nel livello di devastazione che da due anni si abbatte sulla Striscia di Gaza.
Secondo Ghassan Abu-Sittah, chirurgo palestinese-britannico, si sarebbe consumata la prima vera e propria guerra alla biosfera, l’involucro esterno della superficie terrestre all’interno del quale si sviluppa la vita animale e vegetale. Una guerra che ha eliminato tutte le infrastrutture necessarie alla vita, da quelle sanitarie agli impianti idrici, fino a quelle che sviluppano e tramandano conoscenza, e quelle che nutrono tutti, le campagne, gli impianti di produzione agricola, fino agli alberi.
E per quanto sia meno intuitivo e senz’altro meno immediatamente comprensibile, minare tutti i sistemi centrali nella vita di una comunità significa minare profondamente qualunque possibilità di futuro per quella comunità.
Cosa si intende per ecocidio
Non esiste ancora una definizione accettata universalmente all’interno dei sistemi legislativi del reato di ecocidio, nonostante se ne parli da cinquant’anni.
Il primo a evocare il concetto è stato il biologo americano Arthur Galston, nel 1970. Due anni dopo, è Olof Palme, primo ministro svedese, a farne menzione in un suo discorso alle Nazioni Unite.
La discussione ha però preso il via in diverse sedi solo negli ultimi anni, grazie a un’accresciuta sensibilità ambientale a livello globale e alle crescenti evidenze scientifiche che dimostrano la correlazione tra conflitti e crisi climatica.
Dal 2017, Stop Ecocide International, organizzazione internazionale fondata dall’avvocata scozzese Polly Higgins e composta da giuristi e diplomatici di tutto il mondo, ha lavorato per mettere a punto una proposta che sia riconosciuta a livello internazionale.
Nel 2021, il gruppo ha coordinato un panel di dodici esperti indipendenti che ha proposto un emendamento dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, in particolare del suo articolo 8, dove vengono descritti i crimini di guerra. Se adottata, amplierebbe e potenzierebbe anche quella di genocidio e di crimine contro l’umanità, nate dopo la Seconda guerra mondiale. Al momento, infatti, l’articolo 8 contiene esplicito riferimento alla distruzione solo di edifici dedicati alla scienza e all’educazione e di strutture medico-sanitarie senza però alcun riferimento all’ambiente “non antropico”.
Nella definizione proposta e già adottata da diverse organizzazioni internazionali, il termine assume il significato di compiere una serie di atti illegali o arbitrari che vengono commessi nella consapevolezza che ci sia un’elevata probabilità di causare danni gravi e diffusi o duraturi all’ambiente.
Questo permette di tenere insieme le diverse dimensioni di questo crimine: l’arbitrarietà, e cioè l’irresponsabile mancanza di riguardo per un danno che risulta eccessivo rispetto ai benefici sociali ed economici previsti; la gravità del danno, che implica un impatto negativo sull’ambiente, la distruzione o il deterioramento delle diverse componenti ambientali, oltre alle gravi ripercussioni sulla vita umana o sulle risorse naturali, culturali ed economiche; la diffusione del danno, che si estende al di là di una limitata area geografica, interessando un intero ecosistema e molte specie, oltre a un gran numero di esseri umani; il fatto che il danno sia duraturo, e cioè irreversibile o non sanabile in tempi ragionevoli; e infine, il danno è relativo all’ambiente in tutte le sue componenti, e dunque la biosfera, la criosfera, la litosfera, l’idrosfera e l’atmosfera, fino al cosmo.
La grande novità di questo approccio è l’introduzione di una visione non esclusivamente antropocentrica.
La distruzione della conoscenza
Gli esperti indipendenti del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nell’aprile 2024 hanno parlato di “scolasticidio”. Il termine indica la distruzione di massa intenzionale di un sistema educativo ed è stato coniato nel 2009 dalla politologa britannica Karma Naboulsi, durante l’attacco di Israele su Gaza del 2008-2009 (operazione Piombo fuso) e poi utilizzato nel 2011 dal Coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per l’Iraq, Hans-Christof von Sponeck, per descrivere l’impatto dell’invasione statunitense dell’Iraq.
Diverse reti di accademici – dalla International Association of Genocide Scholars ad Accademici contro la guerra in Palestina, ma anche le reti informali che in questi mesi hanno disposto appelli e messo a punto iniziative di protesta – hanno invocato questo termine per riferirsi a quanto sta avvenendo a Gaza.
Lo scolasticidio è inquadrabile come la combinazione di diversi intenti: la distruzione intenzionale del patrimonio culturale; l’uccisione, il ferimento o l’incarcerazione sistematica, di professionisti del settore educativo; la chiusura degli spazi dedicati all’educazione o, infine, il loro utilizzo come basi militari.
Solo nei primi sei mesi della guerra il 60% delle strutture educative della Striscia, incluse 13 biblioteche pubbliche, sono state danneggiate o distrutte. Delle sette università esistenti, che nel complesso contavano 21 campus, poco rimane in piedi. Già a settembre 2024, undici campus erano stati danneggiati, moderatamente o seriamente, e 7 completamente distrutti. Più di 60 edifici universitari sono stati completamente rasi al suolo.
Tra i primi attacchi c’è stato proprio il bombardamento dell’Islamic University of Gaza e dell’Al-Azhar University. La Al-Israa University e la Al-Quds Open University sono state completamente distrutte, dopo essere state utilizzate anche come base militare e carcere temporaneo. Lo University College of Applied Sciences e l’Al-Aqsa University sono stati bombardati mentre ospitavano civili palestinesi sfollati.
Da inizio guerra, secondo i dati aggiornati pubblicati nell’ultimo rapporto periodico di sintesi dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) più di 650mila studenti hanno smesso di andare a scuola e 87mila all’università.
I dati del ministero dell’Istruzione di Gaza, ripresi dall’Ocha, contano tra gli uccisi più di 16.300 studenti e 725 docenti, tra i feriti oltre 24mila studenti e 3.080 docenti. Questi numeri sarebbero senz’altro stati peggiori se i bambini e i ragazzi avessero continuato a frequentare le scuole. La sospensione di tutte le attività didattiche, decisa dal ministero dell’Istruzione di Gaza a ottobre 2023, è stata una misura tesa a evitare che le scuole e le aule delle università diventassero teatri di uccisioni di massa, come purtroppo è successo per gli ospedali.
Complessivamente, dunque, è stato completamente distrutto quasi il 92% delle scuole (518 su 564) e più di 2.300 strutture educative, dalle scuole materne alle aule universitarie. Distrutti anche 195 siti di valore artistico e storico, moschee e chiese. Distrutti anche gli archivi centrali di Gaza che raccoglieva 150 anni di documentazione storica, un elemento chiave delle rivendicazioni dei palestinesi alla terra.
La mancanza di infrastrutture, di energia e di connessione rende il lavoro di chi fa ricerca molto complicato o quasi impossibile. Raccogliere campioni, conservarli e analizzarli sono operazioni che diventano un lusso. Ma anche fare ricerca teorica: lavorare su un database, ad esempio, richiede una buona connettività e la possibilità di avere tempo per fare le proprie analisi, elaborare i dati, salvarli.
Zuhair Dardona, parassitologo palestinese della Striscia di Gaza, è il primo firmatario di uno studio pubblicato dalla rivista One Health Bulletin con «l’obiettivo di studiare gli impatti sanitari e ambientali della guerra a Gaza attraverso la raccolta di dati, le visite sul campo e la documentazione fotografica». Nel paper, il ricercatore ammette molto esplicitamente la propria difficoltà a reperire in modo sistematico i dati, per la complessa situazione in cui si trova, lui stesso sfollato e senza possibilità di raccogliere campioni, conservarli e fare analisi in modo sistematico e regolare.
Compromettere la sicurezza alimentare
Israele ha compromesso la capacità di produzione e di sicurezza alimentare della Striscia, secondo quanto si può desumere da diversi studi.
Dai dati raccolti e cartografati da Forensic Architecture in A cartography of genocide si osserva che già nel corso del primo anno di guerra, Israele ha distrutto oltre il 70% della terra agricola (104 chilometri quadrati, dei 150 totali), tra campi e orti. L’83% della vegetazione di Gaza è stata distrutta. Il 45% delle serre palestinesi di Gaza, e cioè 3.700 serre, sono state polverizzate. A ottobre 2024, il 47% dei pozzi d’acqua e il 65% delle cisterne erano state distrutte o danneggiate. E non si avevano informazioni sullo stato di salute del 30% dei pozzi rimanenti.
Secondo dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), ad aprile 2025 la percentuale di pozzi distrutti era salita a 83%, e quella delle serre a 71%. La rivista medica The Lancet, a maggio, evidenzia che il conteggio delle infrastrutture idriche distrutte arrivava all’89%.
I dati di Forensic Architecture dimostrano poi che c’è una precisa correlazione tra la distruzione delle strutture agricole e l’avanzamento delle posizioni israeliane nella Striscia, con costruzione di accampamenti, postazioni militari, linee di fortificazione, checkpoint.
Queste costruzioni presumibilmente hanno a loro volta un impatto sulla salubrità del suolo perché sono associate a uso di armi, esplosivi e materiali altamente inquinanti che, se non bonificati correttamente, lasciano in eredità un inquinamento permanente del suolo e dell’acqua. Il quadro è completato dalla distruzione complessiva di tutti gli impianti di trattamento rifiuti, altro fattore di progressivo e sostanziale inquinamento.
He Yin, ricercatore alla Kent State University, negli Stati Uniti, e Lina Eklund, dell’Università di Lund, in Svezia, assieme ad altri colleghi, hanno lavorato sulle immagini satellitari del sistema PlanetScope, confrontando l’utilizzo della terra a Gaza prima della guerra e poi nel periodo del conflitto, fino a gennaio 2025.
La loro analisi dimostra il grado di devastazione dell’agricoltura palestinese della Striscia, che prima della guerra, secondo i ricercatori, era in grado di produrre circa la metà del cibo consumato nella Striscia. Per misurare correttamente la perdita di alberi e di campi agricoli, i ricercatori hanno allenato un algoritmo a riconoscere diversi tipi di copertura vegetale, dagli alberi di limone agli olivi, a diverse colture, oltre alle serre.
Nel periodo tra ottobre 2023 e maggio 2025, sono stati danneggiati il 90-94% degli alberi da frutto; il 78-98% della vegetazione forestale; tra il 71 e il 98% delle colture annuali e tra il 78 e il 98% dei prati e pascoli.
Il collasso del sistema agricolo di Gaza
La distruzione dei campi, delle serre, della vegetazione e delle infrastrutture idriche ha conseguenze gravi sulla capacità produttiva agricola della Striscia di Gaza
Alberi, campi e pascoli cancellati dalla guerra
A Gaza sono andati perduti la maggior parte degli alberi da frutto, in gran parte olivi, insieme a colture annuali, prati, pascoli e vegetazione forestale
I danni peggiori si sono registrati nelle prime fasi della guerra nella zona nord della Striscia, ma poi anche le aree di Deir al-Balah e Khan Yunis sono state ampiamente colpite. Considerando che questi dati riguardano soprattutto il primo anno di guerra, la situazione attuale dopo la devastazione massiccia degli ultimi mesi può solo essersi ulteriormente aggravata.
I danni agli alberi sono danni di lungo periodo: una coltura arborea richiede dai 5 ai 7 anni per essere avviata con successo, e circa 15 anni per arrivare a una produzione matura. Se poi consideriamo che la gran parte degli alberi coltivati a Gaza erano olivi, una coltura chiave non solo per il consumo ma anche per il valore anche commerciale dei suoi prodotti, l’impatto non solo sulla sicurezza alimentare ma anche su tutta la filiera agricola è ancora più evidente.
Un altro elemento di impatto di lungo periodo è la distruzione delle serre e dei materiali di copertura. Secondo quanto rilevato da Yin e colleghi, il 58% delle serre è stato distrutto e questo rende molto difficile immaginare una ripresa in tempi ragionevoli della produzione di verdure.
Più facile è riprendere le colture annuali in campo, ma in questo caso diventa essenziale riportare il suolo in una condizione di fertilità e di buono stato di salute, il che, nella situazione presente della Striscia, richiederebbe una bonifica a tappeto per eliminare tutte le sostanze tossiche che si presume possano essere presenti come conseguenza della guerra, dai metalli pesanti all’amianto, fino alle componenti degli armamenti e le mine inesplose.
E richiederebbe anche una maggiore disponibilità di risorsa idrica, il che costituisce un altro enorme problema dato che la distruzione delle infrastrutture idriche implica anche uno stop alle pratiche di irrigazione.
Le condizioni dell’acqua e l’impronta ecologica della guerra
D’altro canto la condizione di salubrità dell’acqua a Gaza è un antico problema. Già ben prima del conflitto attuale, diversi report e studi evidenziano i rischi per la salute delle persone derivanti dalla contaminazione delle acque. Rischi che non sono solo associati all’utilizzo diretto dell’acqua.
La contaminazione da metalli pesanti, ad esempio, come quella da amianto, richiede pratiche di purificazione precise, costose e molto rigorose. Usare acqua contaminata per innaffiare le colture agricole non fa che aumentare la concentrazione di inquinanti nel suolo, inquinanti che poi entrano nella catena trofica e dunque, ancora una volta, possono avere un impatto sulla salute delle persone e degli animali.
Oltre all’inquinamento dovuto direttamente alla guerra, oggi la preoccupazione è anche per un fortissimo inquinamento organico, considerata la grande quantità di persone e animali morti sotto i bombardamenti, i cui corpi non hanno potuto essere rimossi e sepolti adeguatamente.
La distruzione sistematica di più della metà degli impianti di trattamento delle acque, come documentato da analisi satellitare da Brian Perlman e colleghi sulla rivista Plos Global Public Health, aumenta la diffusione e prevalenza di malattie trasmesse dall’acqua. Come la polio, ricomparsa lo scorso anno – e poi prontamente controllata da una campagna rapidissima di vaccinazione, in questo caso supportata da Israele per l’evidente paura della diffusione di un virus davvero temibile e che non si ferma ai checkpoint.
Ma circolano anche epatite A e molti altri virus gastrointestinali. E poi c’è la forte preoccupazione relativa alla diffusione sempre più consistente di microrganismi resistenti agli antibiotici. Un fatto conclamato, probabilmente anche correlato alla presenza nel terreno e nelle acque di metalli pesanti, lasciati dalle munizioni e armi utilizzate dall’esercito, i cui resti contaminano l’ambiente. Il trattamento di infezioni microbiche diventa in questo caso assai più complesso e incerto, richiedendo l’utilizzo di antibiotici molto più costosi di quelli comunemente disponibili.
Poi c’è il problema dell’impronta climatica di conflitti e operazioni militari. Nello specifico, diversi ricercatori hanno cercato di fare una stima delle emissioni di anidride carbonica associate al conflitto su Gaza. I primi a pubblicare un contributo di ricerca, commentata e ripresa da migliaia di ricercatori su un archivio aperto online, sono stati Benjamin Neimark, della Queen Mary University of London, e Frederick Otu-Larbi, della Lancaster University, assieme ad altri tre colleghi.
Secondo Neimark e Otu-Larbi, nei primi 120 giorni di guerra la stima delle emissioni di anidride carbonica era maggiore di quella annuale di almeno 26 Paesi del mondo, pari a una cifra compresa tra 420.265 e 652.552 tonnellate equivalenti di anidride carbonica. Per fare un confronto, l’Italia ha emesso nel corso di tutto il 2024 circa 375 milioni di tonnellate equivalenti di anidride carbonica. Ma il vero problema sarà in fase di ricostruzione, dove, stimano gli autori, le emissioni totali cresceranno enormemente, arrivando a cifre vicine ai 32 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalenti.
Dei presidi sanitari e ospedalieri di Gaza, oggi ne sono rimasti in piedi poco più di un terzo. Non sono operativi al 100% e sono privi di materiali, farmaci, strumenti e perfino spazi. Lo European Gaza Hospital, che era l’unico a effettuare chirurgie oncologiche, non esiste più. Secondo l’ong britannica Medical Aid for Palestinians, «il sistema sanitario di Gaza è stato sistematicamente smantellato, rendendo impossibile sostenere la vita della popolazione palestinese».
Secondo Forensic Architecture, nel primo anno di guerra 35 su 36 ospedali operativi sulla Striscia sono stati messi fuori uso almeno una volta. Di questi, 31 ospedali sono stati bersagli diretti dei bombardamenti. Undici ospedali sono stati assediati almeno una volta, e cinque lo sono stati due volte. Dieci ospedali sono stati invasi. Degli ospedali da campo, quattro sono stati evacuati e resi inutilizzabili. Ventisette dei 36 ospedali si trovano in zone evacuate più volte.
Come nel caso delle infrastrutture agricole, Forensic Architecture ha rilevato schemi ricorrenti nei confronti degli ospedali, che arrivano anche all’invasione della struttura. La tempistica degli attacchi agli ospedali corrisponde esattamente alla presenza di civili sfollati ed evacuati nei pressi dell’ospedale.
Gli operatori sanitari sono stati un bersaglio specifico dell’esercito israeliano, non semplici vittime collaterali di attacchi generici, tanto che la distruzione e l’occupazione sono continuate anche quando gli ospedali erano già stati resi inoperativi.
C’è poi stata una precisa azione mirata ai servizi e reparti maternità, e addirittura la distruzione della principale clinica della fertilità della Striscia, con l’annientamento di quattromila embrioni.
L’attacco alle strutture sanitarie rende ormai impossibile tenere traccia dei dati di morbidità (la frequenza delle persone che si ammalano) e mortalità per le diverse cause, per quanto il ministero della Salute palestinese si sia dimostrato una fonte affidabile.
687attacchi contro le strutture sanitarie |
211attacchi contro ambulanze e mezzi di soccorso |
985omicidi |
2.000ferimenti |
306operatori sanitari arrestati |
70pazienti arrestati |
Un editoriale pubblicato a fine maggio di quest’anno dalla rivista medica The Lancet parla di attacchi implacabili contro il sistema sanitario a tutti i livelli. Sempre su The Lancet Roberto De Vogli, docente di salute globale all’Università di Padova, con Jonathan Montomoli, Ghassan Abu-Sittah e Ilan Pappé hanno lanciato un appello in una lettera intitolata Rompere il silenzio selettivo su Gaza dove scrivono che nella Striscia la speranza di vita alla nascita è crollata di 35 anni nel corso del 2024, un tracollo maggiore perfino di quello registrato nel corso del genocidio in Rwanda.
Ed è anche la terra dove c’è la più grande coorte di bambini amputati nella storia moderna.
Secondo il rapporto Epidemic of violence: Violence against health care in conflict 2024, il numero di attacchi a sistemi e operatori sanitari in Palestina è in assoluto il più alto registrato in un Paese in guerra nel corso del 2024. Sono oltre 1.700 i medici, infermieri e altri professionisti del settore sanitario uccisi in questi due anni.
Questo articolo è stato pubblicato originalmente il 17 ottobre su IrpiMedia.
L'autrice ringrazia Christian Elia e Lorenzo Bagnoli per il supporto, l'editing e la fiducia.

