Indigenous peoples and communities that choose to live away from urban settings are essential references in the current ecological crisis, offering insight into the relationship between humans and the environment. Yet, indigenous and rural cultures are often viewed as underdeveloped, needing modernization. The decline of the agricultural population is still seen as evidence of progress. However, these communities, old and new, have a radically different relationship with nature, not driven by extraction, but by coexistence. We explore these alternative ways of living to understand a non-exploitative relationship with the environment.

 

Oltrenatura, a podcast produced by FACTA.eu for Festivaletteratura

With the voices of Marco Aime, Gianandrea Piccioli, Irene Borgna, Fabio Deotto, Nicola Fannino, Antonello Pasini, and Lance Henson.

 

 

Podcast transcript

 

V1: Ma io sono come gli stambecchi, quando sentono un colpo di fucile e vedono cadere un compagno, stanno immobili per un pezzo. Sono così lenti che ci vogliono due o tre colpi per fargli capire il pericolo. Solo allora scappano.

Io non ho né fretta né paura e mi muovo con cautela sulle cenge della mia età per non fare passi falsi. Quando sarà il momento, quando il colpo che sentirò fischiare sarà quello per me, lascerò alle spalle quei pochi che chiamo famiglia, la casa che ci appartiene da molte generazioni, qualche racconto e tutti i segni che ho lasciato impressi nella mano.

V2: Io li capisco, il turista che viene, che magari solo due giornate, tenta, “se non vado oggi, poi domani, chissà quando torno” allora si lasciano prendere da questa, vanno e poi purtroppo è magari una giornata che no. 

V3: Veniamo dalla Piana, proiettiamo uno sguardo sulla montagna e cerchiamo il montanaro incasellato in un certo modo e quindi quello che comunque parla degli animali, di una vita vera, della natura e che è così. 

V4: Nel nostro paese, forse non solo nel nostro paese, il termine contadino sembra quasi rimanere andare a un immaginario di un passato, di un qualcosa che è un residuo della storia che non c'è più.

Nella vita di tutti i giorni, molti di noi hanno raramente il tempo di fermarsi, di guardarsi attorno, di uscire dai percorsi della solita routine per osservare davvero il posto in cui viviamo, in cui ci muoviamo, in cui lavoriamo, per guardarlo non solo come lo sfondo delle nostre attività, ma come un insieme vivo che evolve, che cambia, che subisce l'impatto delle nostre azioni o che, al contrario, influisce profondamente anche su di noi. 

Ed è di questo che qui vogliamo parlare, l'ambiente, così come è stato raccontato negli anni al Festivaletteratura di Mantova, con le voci degli ospiti del festival selezionate dall'archivio pluriennale consultabile da chiunque al sito archivio.festivalletteratura.it.

Io sono Elisabetta Tola e questo è Oltrenatura, un podcast prodotto da FACTA in cui riannodiamo le voci delle autrici e degli autori che hanno attraversato il Festivaletteratura di Mantova nel corso degli anni, per ragionare insieme su come viviamo l'ambiente, su come lo abitiamo, lo plasmiamo, lo raccontiamo, lo percorriamo, lo coltiviamo, lo pensiamo, lo distruggiamo, lo bombardiamo, lo inquiniamo, lo conserviamo. Oggi parliamo dell'ambiente che ignoriamo.

Oltre la metà della popolazione mondiale ormai vive in contesti urbani, in città grandi o piccole che siano. La nostra avanzata, anche nei cosiddetti territori vergini, continua inesorabile. Deforestiamo, costruiamo, modifichiamo, facciamo in modo di rendere qualsiasi ambiente sempre più funzionale alla nostra vita, anche a costo di stravolgerlo. D'altro canto, questa nostra avanzata e lo sfruttamento intensivo di qualsiasi risorsa ha significato anche abbandono, spostamenti, migrazioni forzate, distruzione di luoghi una volta abitati da popolazioni che vivevano in equilibrio con la natura e che oggi sono obbligate a rinunciare e ad andarsene, a fuggire, a spostarsi, a cercare un luogo alternativo dove poter ricominciare. 

I popoli indigeni sono tra i primi a soffrire del degrado dei propri ecosistemi. Dopo aver vissuto per secoli, se non millenni, in sintonia con l'ambiente in cui si muovevano, negli ultimi 200 anni e sempre più nei decenni passati, sono stati spesso obbligati a convivere con ambienti degradati, sofferenti, dove le risorse di base sono insufficienti. Ma un discorso analogo vale per le popolazioni delle montagne o per quelle delle isole, delle zone aride, di quelle fredde o tropicali, perfino per quelle di molte zone rurali.

Dalle popolazioni indigene arrivano lezioni e moniti su come andrebbero preservate le risorse naturali. Da chi vive per scelta o per tradizione a diretto contatto con le montagne o con le foreste arrivano racconti e riflessioni su come rispettare la natura, su come conviverci, su come temerla e sostenerla, evitando l'ingenuità e l'atteggiamento naive tipico di chi la natura non la conosce affatto e finisce con il sottovalutarla o il sopraffarla.

Lance Henson: In the motion of rain, the water touches what cannot stay. In the first days of the world, we were travelling. Where have you gone, leaf and flower, scent of moths?

Irene Borgna: Io vengo adesso dalla Valle Gesso che sta in un posto che, scommettere 100 milioni che nessuno di voi conosce, ma è bellissimo. La Valle Gesso sta nella Alpi marittime, dove le Alpi si fiondano nel Mediterrano con delle cime di 3000 metri lì ci sono finita partendo dal mare. Io nasco in una delle città più brutte della riviera Ligure di Ponente che è Savona: cosa buona di Savona è che è talmente brutta che ti fa venire voglia di andare via e nello specifico sono finita in questa benedetta Valle Gesso a fare delle interviste ai facondi, gioviali, accoglienti montanari di Entracque che per primi 3 mesi di permanenza in questa valle non mi parlarono.

Tra i popoli che fra i primi sono stati vittime del sopruso e della violenza da parte di altri sapiens ci sono senz'altro quelli che popolavano l'America quando gli europei l'hanno, come continuiamo erroneamente a dire, scoperta. Lance Henson, poeta attivista non ama i termini americano, indiano o indigeno; lui usa il termine originario della sua lingua tsistsistas, essere umano e a Mantova ha raccontato la storia della sua tribù, parte della nazione Cheyenne, e l'importanza di preservare anche attraverso la poesia, la conoscenza e il rapporto con l'ambiente che gli Cheyenne come altre tribù hanno saputo mantenere per secoli. 

Lance Henson: Sono stato iniziato a entrare in questo clan dalla società dei Dog Soldiers Cheyenne nel 1976. Nella mia tribù ci sono clan di uomini e donne. Il ruolo delle donne è quello di costituire una società segreta che ha come compito quello di portare avanti la nazione indiana, la conservazione della nostra tribù. Le donne sono quelle che possiedono le conoscenze sacre e segrete, condivise solo all'interno del loro clan. Il ruolo dei combattenti è quello di proteggere questa conoscenza segreta.

Per poter entrare in questo clan ho dovuto partecipare per anni a diversi rituali. Io prendevo parte a diversi riti, come quello della danza e del sole, da più di 23 anni quando sono stato scelto. Il mio clan non ha nessun trattato in essere né con gli Stati Uniti né con nessun altro paese. Il mio clan ha delle regole molto precise per mantenere i rapporti con l'umanità che ci circonda, rispettando e portando avanti il messaggio della mia gente. Oggi le mie parole sono la mia arma.

Sono stato cresciuto da poeti che mi hanno trasmesso la storia della nostra gente. Gli tsistsistas erano originariamente popolazioni che vivevano nelle foreste dell'Est degli Stati Uniti. Siamo stati spinti a spostarci a Ovest dall'invasione degli europei in America. Abbiamo dovuto cambiare stile di vita, da persone dei boschi a tribù delle pianure, con l'aiuto della nazione Lakota.

Come dice lui stesso, Henson, usa le parole per combattere una guerra, quella contro l'ignoranza, contro il tentativo di cancellare le storie e la vita dei popoli indigeni. Negli anni ha organizzato diversi tour assieme a poeti indigeni di diverse nazioni per portare le voci delle popolazioni native in Italia e in altri paesi.

Lance Henson: Sono stato invitato nelle regioni del Pacifico, anni fa, per incontrare le popolazioni indigene di quelle zone. Sono stato in Thailandia, nei villaggi lungo i fiumi. Ho poi incontrato i Sami in Finlandia. Ho incontrato i poeti dei villaggi della Papua Nuova Guinea, dove c'era l'ultima foresta tropicale intoccata del pianeta. Era il 1993. Ho chiesto di andare sull'isola centrale, dove le popolazioni indigene sono guerriere.

Settanta poeti mi hanno incontrato durante la stagione dei monsoni. Molti di loro hanno camminato per chilometri. Abbiamo letto e composto poesie insieme. E loro mi hanno detto che la guerra sta arrivando. E come prima, noi combatteremo per difendere la nostra foresta, i nostri animali, come avete fatto voi in America. Aiutateci. Porta la nostra voce al mondo.

Nel suo discorso, Henson cita le popolazioni del Pacifico. È ben noto che tra le zone che più risentono degli impatti drammatici della crisi climatica in corso, ci sono proprio le isole, territori che sono stati e sono tuttora oggetto di grande sfruttamento. Continuiamo illusoriamente a raccontarci che le isole siano un paradiso in terra. Continuiamo a raccontarci che sia lì che si deve andare per la vacanza perfetta, ma chi viaggia togliendo questi occhiali distorti e cercando di guardare a quello che sta davvero succedendo in quegli ambienti, racconta una storia molto diversa.

Lo scrittore Fabio Deotto ha intrapreso negli ultimi anni una serie di viaggi per andare a vedere e raccontare, ai suoi lettori, come stanno quei luoghi che consideriamo sempre come la meta da sogno. Le Maldive, per esempio, dove i segni chiari della crisi ambientale e climatica sono molto evidenti per chi li vuole vedere, come spiega Deotto in un incontro a Mantova insieme allo scrittore Nicola Fannino.

Fabio Deotto: Leggendo il reportage narrativo sulle Maldive c'è qualcosa che rompe un po' degli schemi che probabilmente tutti noi abbiamo in testa, anche proprio sulla geografia e sulla fotografia dall'alto delle Maldive. C'è la capitale, c'è l'isola su cui sorge la capitale, Malè, che forse è l'esatto posto dell'immaginario delle Maldive che abbiamo in mente. Ci sono le isole resort, che forse sono quelle che abbiamo tutti negli occhi. Ci sono anche delle isole di scarica e poi ci sono delle isole che stanno un po' a metà. 

Nicola Fannino: Sì, infatti, noi abbiamo in mente i resort che in realtà non sono le vere Maldive, nel senso che sono strutture costruite su lingue di sabbia su cui spesso non abitava nessuno prima. Le vere Maldive sono costituite da altri isole, in particolare quella dove c'è la capitale, che è Malè, che è così sovrappopolata, così piena di cantieri, così in espansione, che è praticamente, vista dall'altro, sembra che abbiano ritagliato il centro di una metropoli occidentale e l'abbiano incollata a un metro sopra il livello dell'oceano indiano. È un'isola dove non ci sono più le spiagge o, se ci sono, sono costruite ad hoc per, diciamo, i turisti che magari vogliono visitare anche la capitale, però di spiagge originarie non ce ne sono più. Quando vai nelle isole, invece, che non sono né resort né l'isola capitale, hai sempre io, turista tra virgolette, occidentale, comunque giornalista che arriva con una certa immagine mentale, continua a vedere un paradiso. E quindi la grande dissociazione è nata quando io ho parlato con una persona che è nata lì e che vive tuttora lì e lui mi ha raccontato, mi diceva, tu vedi un paradiso qui ma il vero paradiso c'era 15 anni fa, nel senso che le spiagge erano lunghe il doppio, nel senso che io potevo prendere una lamiera, mettermi in cima a dove stanno le palme e scendere come se fosse un bob sulla neve, adesso non lo posso più fare perché la spiaggia finisce subito e tra l'altro le palme stanno crollando, questo per via dell'erosione costiera dovuta all'innalzamento dei mari, dovuta anche ai cicloni che ci sono stati e dovuti anche al cambio nei flussi di marea dovuti all'intervento dell'uomo. Quindi la cosa interessante è andare in quest'isola a vedere quel paradiso terrestre che noi abbiamo nella testa e poi aspettare, farsi un po' educare nel proprio sguardo e vedere che appare tutto quello che a un primo sguardo non vedi.

Conoscere i luoghi e persone, passandoci del tempo, prendendosi il tempo del racconto e dell'ascolto, seguendo il ritmo delle giornate, delle attività quotidiane è una chiave che consente di entrare in sintonia con i diversi modi di vivere l'ambiente. C'è un paesino, nelle montagne tra Italia e Francia, dove vive uno di quei personaggi la cui vita di per sé è una storia da raccontare. Il paesino è Rhèmes-Notre-Dame, l’uomo è Luis Oreiller. La storia di Oreiller e il suo rapporto con la montagna non l'hanno raccontato a Mantova, in occasione dell'uscita di un libro, di un documentario su di lui, Gianandrea Piccioli, per molti anni amministratore e direttore di diverse aziende editoriali, amico personale di Oreiller, e Irene Borgna, antropologa alpina.

Gianandrea Piccioli: Comincio raccontando un po' come è fatta Rhèmes-Notre-Dame, che è un borgo attualmente di 120 abitanti, bambini compresi, ma non sono molti, è alla fine di una valle stretta della parte alta della Val d'Aosta verso Courmayeur, chiusa in fondo la valle da una bellissima serie di cime, una volta molto innevate o anzi con ghiacciai, adesso purtroppo ridotti. Dall'altra parte del confine c'è la Francia. Il confine passa proprio sulla cresta delle montagne ed è la Val d'Isère. Metà valle è nel territorio del Parco Nazionale del Gran Paradiso e confina con la Valsavarenche. L'altra metà che confina con la Valgrisenche è ripidissima, molto scoscesa. La cosa strana, a vederli adesso, è che in passato sui piccolissimi fazzoletti di terra di questa parete scoscesa coltivavano le patate: ognuno aveva il suo pezzettino, un fazzoletto di terra, coltivavano anche quello. Adesso è una riserva di caccia.

Irene Borgna: A Rhèmes veramente ci sono quattro anime, tutto l'anno o per buona parte dell'anno, però sono tutte straordinarie, cioè è un posto che li calamita, quelli un po' matti e ci sono già Andrea, c'è Lonella, c'è Luigi e Natalie e tre curiosi frati che mi hanno pazientemente ospitato per tutto questo lavoro.

Luigi quando tu arrivi a questo modo molto diretto, anche così animalesco nel senso buono di conoscerti, arriva, ti tasta, ti guarda le mani ma te le gira perché deve fare un lavoro fatto bene e poi trae le sue considerazioni e tu resti un po’ lì, speriamo che l'esame sia stato passato ed è passato. E con questa bellissima voce, col suo accento di patois un po' lavorato dal fumo mi ha raccontato la sua vita.

C'è un aspetto peculiare della storia di Oreiller che sia Piccioli che Borgna, mettono in luce anche se Oreiller, come altri che rimangono nei propri luoghi di nascita, ha avuto senz'altro fino a un certo punto un rapporto con l'ambiente più funzionalistico, non necessariamente improntato al rispetto profondo o alla volontà di conservare, mantenere ma più alla necessità di utilizzare le risorse per vivere, nel tempo ha cambiato atteggiamento.

La vita di Oreiller è un interessante esempio di come si possa arrivare a vivere pienamente in un ambiente anche molto difficile per scelta e non per obbligo.

Gianandrea Piccioli: Poi un altro aspetto della sua personalità, come tutti quelli che dalla natura traggono il proprio sostentamento materiale direttamente, cioè sul lavoro, e non come noi cittadini per via mediata, lui da giovane aveva un rapporto strumentale con la montagna, con i suoi animali, i suoi alberi, i pascoli, le acque. Non ne abusava perché sapeva che era un bene prezioso da non sciupare e da non sperperare, ma la vedeva come un bene da curare perché utile. Con gli anni, soprattutto nei lunghi anni in cui ha fatto il guardia parco e il guardiacaccia, il suo atteggiamento è cambiato. Non era più il signore, il padrone della natura, ma parte di un unico cosmo, solidale con esso e della stessa sostanza. Senza le smancerie e gli squittii estetizzanti dei cittadini che consumano il bello naturale. 

Con molti cittadini, quando vanno in montagna si commuovono per i colori, per le cose, ma in realtà è una roba molto disneyana, più che montanara. No, lui ha conquistato con gli anni la consapevolezza di far parte di un unico tutto. Sa che la linfa che scorre negli alberi è la stessa forza vitale che scorre nelle sue vene, che anche la roccia è viva e sa anche che il cielo diurno e notturno è una scrittura da interpretare e che puoi ascoltare gli alberi, non solo come faremo noi generalmente il fruscio delle foglie agitate dal vento, che ci sembra una cosa molto carina, ma lui conosce soprattutto il linguaggio dell'intero albero, le risposte che il tronco manda se uno picchietta leggermente. 

Detto in una parola, quello che un tempo era il rispetto utilitaristico negli anni è diventato un rispetto fraterno e riconoscente.

Irene Borgna: Lui la montagna se l'è scelta, non se n'è andato da Rhèmes-Notre-Dame dove è nato, perché non gli è mai venuto in mente di andare via. Luigi, che è nato lì, si è fatto veramente delle sfaticate mondiali, ha fatto il bracconiere, ha fatto il contrabbandiere, lavori di fatica, il manovale, si è scassato la schiena, ha fatto il boscaiolo, parte per la naia, ha l'occasione di dire “ciao Rhèmes, io me ne vado” perché in gamba è bello, è sveglio, è capace, è una persona che veramente le aveva tutte, non è purino, montanaro che vuoi che faccia. No no, lui poteva andarsene. E lui Rhèmes se l'è scelta, se l'è scelta ed è diventata destino, ma il fatto che abbia deciso, che sia un montanaro che decide dopo averla vista da lontano come un vero antropologo, la sua tana, è qualcuno di veramente speciale. Il 99% ci nasce, se ci resta, ci vive e ci crepa senza essersi mai posto quella domanda, qualcuno perché gliene manca la possibilità, qualcuno davvero perché non ha abbastanza immaginazione per farlo. Il fatto che Luigi abbia avuto questa possibilità di andare via, abbia deciso di restare lo rende già subito diverso, straordinario per quanto mi riguarda.

Dalle montagne ai deserti il passo è lungo, non c'è dubbio però che una delle necessità più impellenti per le popolazioni umane sia quella di poter avere l'acqua a portata di mano e i deserti per questo sono tra gli ambienti più difficili per la vita umana. Come ben sappiamo il deserto, meglio i deserti, però stanno avanzando e non solo nelle zone tradizionalmente aride della terra. Se perfino l'Italia ha ormai un quarto del suo territorio a rischio aridità, come anche la siccità di questi ultimi anni ci dimostra molto concretamente, ci sono zone del mondo senz'altro più fragili e dove i fattori climatici non solo spingono le popolazioni locali ad andarsene ma possono diventare addirittura causa di guerre e di conflitti.

Antonello Pasini, un fisico climatologo del CNR, racconta i risultati di uno studio fatto con un modello teorico messo a punto dal suo gruppo di ricerca, che ha utilizzato i dati di quasi due decenni per vedere le tendenze migratorie dai paesi del Sahel, dove la desertificazione è sempre più problematica.

Antonello Pasini: Un software e un modello e diciamo sono questi modelli, come diciamo noi fisici, non lineari cioè che riescono a cogliere relazioni fra variabili che sono un po' nascoste a quello che noi vediamo solitamente con i metodi standard. Noi abbiamo applicato questo modello sostanzialmente alle migrazioni dal Sahel all'Italia prima delle primavere arabe perché volevamo metterci proprio in una situazione in cui non ci fossero enormi perturbazioni a eventuali migrazioni climatiche, perché è chiaro che dopo le primavere arabe sono scoppiati conflitti di tutti i tipi e quindi è chiaro che il segnale climatico poteva essere nascosto.

Allora ci siamo messi dal 1995 al 2009, abbiamo analizzato i dati, abbiamo cercato un modello che riuscisse a prevedere questi dati di spostamento di migrazione tra i dieci paesi del Sahel e l'Italia soltanto partendo da dati meteoclimatici, diretti e indiretti, sull'influenza che avevano sui raccolti. Ebbene noi siamo riusciti, come dire, a ricostruire quasi all'80% la variabilità dei flussi da un anno all'altro da questi dieci paesi del Sahel all'Italia. Questo vuol dire che effettivamente la variabile meteoclimatica ha un'importanza veramente fondamentale. 

Lì ci sono tanti problemi, nella fascia del Sahel, ci sono economie assolutamente fragili, fatte da agricoltura di pura sussistenza, quindi è chiaro che quando arriva qualche perturbazione esterna come il cambiamento climatico va a impattare su delle economie, delle società, ovviamente fragili e quindi succede quello che succede. Ecco però questo passaggio è assolutamente importante perché lì la desertificazione è veramente galoppante, lì il deserto del Sahara si sta espandendo e sta mangiandosi sostanzialmente terreni fertili. Cioè, ci sono dei terreni degradati che anziché essere recuperati a terreni fertili vengono invasi dalla desertificazione.

I dati sono essenziali per capire i fenomeni ma non c'è dubbio che poi, perché tutti iniziamo davvero a ragionare, a condividere, dobbiamo ripartire dalle storie, dall'impatto dei cambiamenti sulle nostre vite. Andare nei luoghi, conoscerne i protagonisti, darsi il tempo per ascoltare, per scoprire davvero cosa sta succedendo a un certo ambiente può diventare anche un vero e proprio metodo narrativo. Fabio Deotto, lo scrittore, spiega che dopo aver provato per anni a raccontare il cambiamento climatico attraverso studi e dati ha pensato che forse vedere con i propri occhi gli effetti e raccontare le storie dei luoghi visitati poteva essere una chiave diversa, di maggiore efficacia.

Fabio Deotto: Mi rendevo conto anche che nella narrazione del cambiamento climatico spesso mancava un riferimento alla dimensione attuale e alla dimensione umana. Ma una volta che ho fatto questo viaggio mi sono reso conto di un altro elemento, non soltanto del fatto che il cambiamento climatico e la crisi climatica, l'emergenza climatica, sia già in corso e stia già cambiando le nostre vite, ma anche del fatto che noi facciamo fatica, nonostante i dati, nonostante le testimonianze, nonostante anche si posso vedere con i propri occhi il problema, facciamo fatica a preoccuparcene come invece ci preoccupiamo di altri problemi. Quindi facciamo fatica a metterlo in cima alle nostre preoccupazioni.

 

Oltre Natura è un podcast del Festivaletteratura di Mantova. Le voci che ascoltate sono state selezionate dall'archivio pluriennale del festival, consultabile al sito archivio.festivalletteratura.it. La produzione è di FACTA.eu, per un progetto ideato e realizzato da Elisabetta Tola e Giulia Bonelli.

 


Credits

You have listened to Oltrenatura, a podcast produced for Festivaletteratura by FACTA.eu.

The concept, interviews and writing are by Giulia Bonelli and Elisabetta Tola.

Oltrenatura, available on festivaletteratura.it and wherever you listen to your podcasts (Spreaker and Spotify).

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