Countryside and cities are chosen by human communities, as are coastlines, riverbanks, and hills. What does it mean to live in these different environments? Do we recognize their unique features, or, as often happens, try to mold them to our needs? How have these habitats changed? Rural areas have emptied, cities are expanding, now uncontrollable organisms at risk of becoming hypertrophic and unsustainable.

 

Oltrenatura, a podcast produced by FACTA.eu for Festivaletteratura

With the voices of Franco Arminio, Stefano Boeri, Luca Molinari, Michela Pasquali, Pia Pera, and Matthias Sauerbruch.

 

 

Podcast transcript

 

V1: Secondo me l'architettura del paesaggio ha un compito formidabile, deve riparare quei milioni di luoghi che sono stati distrutti, soprattutto nella costruzione del dopoguerra in Europa.

V2: “Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di persone che sanno fare il pane”.

V3: Io amo la natura quando mi circonda da tutte le parti e poi si svolge in lontananza fino all'infinito e poi ci sento dentro.

Dal 1997, per cinque giorni all'anno, Mantova diventa la capitale internazionale della letteratura. Una letteratura vista in un'accezione ampia e curiosa, intrecciata la storia, la società, l'arte, la scienza, la tecnologia, l'ambiente. Ed è di questo che vogliamo parlare l'ambiente, così come è stato raccontato negli anni al Festival Letteratura di Mantova, con le voci delle autrici, degli autori, degli ospiti del Festival, selezionate dall'archivio pluriennale consultabile da chiunque al sito archivio.festivalletteratura.it.

V3: Mi piace quando da tutte le parti mi circonda l'aria calda e la stessa aria si perde avvolgendosi nella infinita lontananza, quando non sei solo a esaltarti e a gioire della natura, quando vicino a te ronzano e sciamano miriadi di insetti, strisciano le coccinelle e gli uccelli riempiono l'aria col loro canto.

V4: Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento.

Io sono Elisabetta Tola e questo è Oltrenatura, un podcast prodotto da FACTA.eu in cui riannodiamo le voci delle autrici e degli autori che hanno attraversato il Festival Letteratura di Mantova nel corso degli anni, per ragionare insieme su come viviamo l'ambiente, su come lo abitiamo, lo plasmiamo, lo raccontiamo, lo percorriamo, lo coltiviamo, lo pensiamo, lo distruggiamo, lo bombardiamo, lo inquiniamo, lo conserviamo.

Oggi ci occupiamo di come nell'ambiente ci stiamo, di come costruiamo case, di come creiamo giardini, di come abbiamo pensato ad abbellirlo, oppure come cerchiamo di recuperarlo. Di città e di campagna, di montagna e di mare, insomma dell'ambiente che abitiamo.

A partire dalla seconda metà del novecento la popolazione umana si è spostata e oggi sappiamo che più della metà delle persone che popolano la terra vive in città. Secondo le proiezioni demografiche a fine decennio nel 2030 arriveremo addirittura al 70%. Naturalmente a seconda dei paesi le città e gli ambienti urbani sono costruiti in modi molto diversi, ma non c'è dubbio che ci sia in generale un bisogno di trovare nuovi equilibri nelle città, di dare più spazio alla natura nei posti dove viviamo. E al tempo stesso dobbiamo anche capire se gestire gli ambienti dove invece sempre meno persone vivono, i paesi di montagna, i borghi abbandonati per esempio, e come farlo. Questo bisogno è emerso sempre più deciso e forte negli ultimi vent'anni. Già nel 2009 Luca Molinari, critico e teorico dell'architettura Ordinario di Progettazione architettonica all'Università della Campania, ne parlava proprio al Festival di Mantova con Matthias Sauerbruch, che è un architetto tedesco, fondatore e direttore dello studio anglo-tedesco Sauerbruch & Hutton. Partendo dal concetto di sostenibilità, non quello solo di facciata, per raccontare le sfide dell'architettura contemporanea.

Luca Molinari: Si fa molta retorica dell'ecologia e spesso la si fa anche in maniera un po' erronea, si copre di verde qualsiasi cosa. Ormai basta mettere una pianta da qualche parte per rendere un architetto o uno spazio sostenibile e ecologico.

Matthias Sauerbruch: Eh sì, è vero che la sostenibilità è un termine scomodo alcune volte. È stato anche abusato, viene utilizzato troppo a sproposito. Però si può comunque ritornare a una definizione di sostenibilità. Significa affrontare le esigenze di oggi senza impedire che possano essere soddisfatte quelle delle generazioni future. 

È necessario uno sforzo di creazione, dunque, di ragionamento su un progetto coerente e un modello di città che tenga insieme le esigenze di socialità e condivisione con quelle di salute di chi la abita, di riduzione dell’impatto ambientale, di uso efficiente e sensato delle risorse. Soprattutto oggi che siamo ben consapevoli di quello che è il quadro della crisi ecologica e della crisi climatica che stiamo vivendo. E Matthias Sauerbruck a questo punto propone tre livelli di intervento dell’architettura.

Matthias Sauerbruch: Penso che l'architettura possa continuare a operare su diversi livelli, su tre livelli, in particolare quando si tratta di affrontare questioni complesse come questa. E quando si costruisce nell'edilizia, quando si realizzano infrastrutture, come in qualsiasi altra attività umana, si consuma energia. Ci sono le risorse che vengono utilizzate per la costruzione e quelle che naturalmente sono utilizzate per il mantenimento. È una parte importante, e rientra nell'efficienza dell'uso di queste risorse.

In secondo luogo c'è l'architettura stessa. Nelle società occidentali dell'Europa potremmo dire che non usciamo mai dallo spazio dell'architettura, perché di fatto tutti i paesaggi, tutti i nostri territori, sono coltivati, costruiti. In un certo senso potremmo dire che le costruzioni sono ovunque e quindi noi, come architetti o come ingegneri, includendo tutti quelli che operano in questo campo, creiamo l'ambiente in cui vivranno le generazioni future. Quindi non possiamo appunto tralasciare la qualità di questo ambiente che farà la differenza.

Il terzo componente è l'effetto dell'architettura sull'ambiente sociale, sulla convivenza tra le persone, sull'interazione e la comunicazione tra le persone. Nell'ambiente in cui viviamo. Non possiamo concepire degli edifici singoli, delle costruzioni individuali senza pensare alla città che le ospita. E la città rimane tuttora la forma di convivenza più interessante, più complessa, anche più benefica e più gratificante quando funziona come ambiente sociale in cui vivere la nostra vita. Gli interventi individuali possono arricchire questo ambiente oppure possono rovinarlo, distruggerlo. Hanno la capacità di creare opportunità per un incontro, per stare insieme. Spazi di condivisione e coesistenza. La capacità di creare una società coerente che possa portare avanti il progetto della sostenibilità è proprio la terza componente di quello che dicevamo.

Sul tema della progettualità urbana, a Mantova si è riflettuto spesso nel corso degli anni. Nel 2016, per esempio, l'architetto milanese Stefano Boeri ne ha parlato a lungo, insieme nuovamente a Luca Molinari, ragionando sui cicli di vita delle città e sul ruolo della politica, oltre che della tecnica e delle competenze specifiche, nella gestione dello spazio urbano.

Stefano Boeri: È verissimo che le città hanno dei cicli di vita. Ed è verissimo che i tempi del successo e i tempi del silenzio sono diversi da città a città. Penso che soprattutto le politiche pubbliche oggi hanno a che vedere sempre con lo spazio. Sempre incontrano una questione che ha una caratteristica legata alla fisicità degli spazi. Ma questo lo dico anche pensando alle politiche pubbliche apparentemente più astratte dalla dimensione tridimensionale delle configurazioni fisiche, quelle sul bilancio, quelle sulla cultura, quelle sul benessere. Alla fine, l'amministrazione, il governare una città significa cambiare gli spazi, costruire muri, abbattere muri, aprire spazi abbandonati, costruire nuovi spazi, asfaltare, togliere l'asfalto, mettere il verde. Ma alla fine, diciamo così, la politica e lo spazio sono, io credo negli ultimi due decenni, tornati ad essere due dimensioni che sono consustanziali, cioè sono fortissimamente intrecciate.

Questo cosa vuol dire? Vuol dire che in realtà chi fa politica, le classi dirigente che fanno politica, dovrebbero avere una competenza sulle modificazioni dello spazio e dovrebbero anche sapere utilizzare in un modo intelligente il lavoro che fa un urbanista, che spesso è un lavoro che si presta a essere strumentalizzato, perché noi spesso, e qui parlo da urbanista, siamo chiamati da revisori e diciamoci la verità, molto spesso queste revisioni sono delle bolle, delle bolle narrative che moltissimi casi poi non vengono neppure realizzate.

Oggi viviamo in questo Paese, che è il Paese dove abbiamo avuto il consumo di suolo più gigantesco, irrefrenabile d'Europa e contemporaneamente il Paese che è stato più pianificato, cioè dagli anni ‘70 agli anni ‘80 non c'è angolo di questo Paese che non abbia avuto un piano particolareggiato, un piano d'aria, un piano regolatore, un piano territoriale di coordinamento e prosegue, prosegue, rivisti, rifatti. Cosa vuol dire questo? Vuol dire anche che noi urbanisti abbiamo per molto tempo immaginato di poter determinare la realtà semplicemente facendo delle mappe, scrivendo dei testi e facendo provare dei piani, ma poi la realtà è andata per conto suo.

Quindi, ancora una volta c'è un problema di rapporto tra politica e tecnica e poi c'è un problema di capacità di governare i processi reali, che la politica e la tecnica, lo dico essendo chiaramente legato alla sinistra italiana, è stato anche un grande fallimento.

Stefano Boeri è molto conosciuto per uno degli interventi più creativi realizzati a Milano negli ultimi anni: la costruzione di un bosco verticale, un palazzo che al contempo bosco, foresta, giardino, nel cuore del quartiere Isola. Da dove è arrivata però per Boeri l'ispirazione a costruire un bosco verticale nel cuore di una città che è di fatto una piccola metropoli?

Stefano Boeri: Sto lavorando con la filiera del legno friulano, che sono un gruppo di imprenditori straordinari che si occupano di tutto il ciclo, quindi dalla cura delle foreste, la sifocultura, la forestazione, la costruzione di pannelli prefabricati, la costruzione di arredi. C'è un'etica nelle persone con cui sto lavorando, un atteggiamento di attenzione verso il bosco, verso la foresta, verso l'albero, che ogni volta mi emoziona.

Devo dire che lavorando nelle foreste, camminando con loro, innanzitutto vede che ci sono i boschi verticali storicamente nella natura italiana. Ci sono alberi che vivono con pochissima terra su pareti rocciose in Friuli, in Trentino, in Val d'Aosta, sugli Appennini, sono attorno a noi, quindi non abbiamo scoperto assolutamente nulla, prima di tutto.

Perché portarli in città? Questo è il punto, vero? E qui ci sono tante cose che si incrociano. Allora sì è vero, ci sono anche cose personali, vabbè, lo so che sia un barbanale, ma per me il barone rampante è stato uno delle cose più emozionanti della mia infanzia.

Boeri non si ferma al barone rampante, naturalmente cita anche altri personaggi, altre esperienze che nel corso degli anni lo hanno portato a coltivare l'idea del bosco verticale. Sono molti gli architetti che con diverse soluzioni hanno proposto giardini, boschi, orti verticali in tante città del mondo. Michela Pasquali, botanica e paesaggista, raccontava diversi progetti già in un incontro del 2008 sempre a Mantova. 

Michela Pasquali: I giardini verticali esistono fin dai tempi di Babilonia in cui l'uomo ha cominciato e ha cercato di crescere non solo sulle superfici orizzontali, non solo con la terra. Nel 900 tanti artisti, paesaggisti e architetti si sono dedicati a questo intento con varie tecniche, vari risultati, tra cui Burle Marx, uno dei più grandi architetti del paesaggio del secolo passato, che ha costruito delle colonne vegetali a San Paolo in Brasile.

Vito Acconci è un artista che ha costruito nella facciata del Museo d'arte Galego di arte contemporanea di Santiago di Compostela un'opera d'arte che si chiama Park, Appa e Building, cioè attacca alla superficie di un edificio un giardino. È costituito come se fosse una scala antincendio molto leggera sulla quale ci si può arrampicare, con delle panchine e degli alberi in queste specie di pianerottoli che lui ha creato.

Verticali ed orizzontali, parchi e giardini sono elementi che da sempre hanno il ruolo di portare il verde più vicino a chi vive in città, di aiutare chi vive in uno spazio urbano a entrare in contatto diretto con altre specie non umane, con le piante, con gli animali, con una natura certo non selvaggia, anzi spesso molto addomesticata, ma pur sempre necessaria.

Pia Pera, scrittrice e traduttrice della lingua russa scomparsa nel 2016, ha abbracciato a un certo punto della sua vita un forte interesse per il mondo dei giardini. Ha dato vita a un bellissimo giardino attorno a un casolare toscano, ma ha anche promosso la nascita e la diffusione di giardini urbani. Nel 2009 Pia Pera proponeva già una serie di riflessioni ed esperienze proprio sul senso del giardino.

Pia Pera: Quello che per la sensibilità contemporanea mi pare sia diventato il senso del fare giardino, ovvero entrare a sentirsi parte di qualcosa di mutevole, la natura, avere la sensazione di ristabilire un contatto con la rete della vita e non più ammirare dall'esterno un panorama. In altre parole, ristabilire un rapporto con la natura, sentirsene parte, tornare a comprendere il nostro rapporto di interdipendenza con le altre specie, animali, vegetali, ma anche con la comunità umana.

Ecco, questa secondo me è l'urgenza e l'interrogativo del fare giardino oggi, che poi diventa anche un modo di fare paesaggio, vedere il paesaggio, intervenire sul paesaggio, agreste, urbano, selvaggio o anche industriale che sia. Merita inventare giardini a patto che non siano luoghi, cose e basta, ma entrino a far parte della nostra esperienza, della nostra evoluzione, che inneschino un percorso, una rete di relazioni col mondo e la natura.

A me pare che poi si muovono in questo senso i paesaggisti più innovativi, non sto a fare nomi perché poi sono tanti, ma Diana Belmonte, Gilles Clément, Sophie Agata Ambroise, però anche, oltre a questi paesaggisti che hanno un nome, che sono affermati, sono anche i guerrilla gardeners che lavorano in questo senso. C'è l'idea di azioni relazionali e significative, di interventi anche soltanto temporanei sul paesaggio campestre, ma soprattutto urbano.

Il giardino del nostro tempo non è un luogo circoscritto, ormai, come ha detto Clemane, come conoscenza comune, il giardino è planetario, non ha confini come l'ambiente.

I giardini urbani hanno spesso una dimensione collettiva, hanno un senso collettivo perché danno a una comunità l'occasione di riappropriarsi di un pezzo di spazio, a volte di contrastare luoghi decadenti, degradati, a volte diventando un bene collettivo che è alternativa alla mancanza di luoghi, spazi di condivisione, di socialità, di cultura. Pia Pera ha citato i guerrilla gardeners, gli attivisti che, attraverso bombe di semi, fanno germogliare le piante in spazi urbani che altrimenti rischiano di essere ulteriormente cementificati o che rimangono inutilizzati.

L'esperienza di orti e giardini urbani, adesso molto vivace anche nel nostro paese, è consolidata in altri paesi del mondo da decenni. Una delle più longeve è quella dei giardini americani, in particolare quella dei giardini del Lower East Side di New York, una delle aree tradizionalmente più povere, malfamate e mal gestite della penisola di Manhattan. Michela Pasquali ha vissuto a New York negli anni 90 e ha documentato l'evoluzione dei giardini comunitari di questo quartiere.

Michela Pasquali: Qua vediamo la fotografia, una fotografia importantissima per questi spazi, di questa ragazza che saluta e si chiama Liz Christie, che è la prima inventrice dei green guerrillas o dei guerrilla gardens, che è un gruppo di persone che si faceva chiamare Peace Corps Types for the Post Flower Power Generation, che ha iniziato a colonizzare questi spazi abbandonati, buttando delle bombe di semi attraverso le reti per renderle e trasformarle in verde. Ed ecco che con questo sistema cominciano una prima colonizzazione. Poi hanno chiesto al dipartimento newyorkese che si occupava di queste aree la possibilità di entrare e cominciano la costruzione di un primo giardino che esiste ancora, si chiama Letts Christy Community Gardens.

L'inizio di questo primo movimento è nato un po' sulla scia del movimento ambientalista alla fine degli anni ‘60 ed ecco come oggi il giardino è diventato un piccolo parco pubblico.

Quando si passeggia per il quartiere ormai non ci sono più gli edifici abbandonati, ormai sono quelli che non erano utilizzati o quelli decrepiti venivano buttati giù e al posto ci sono i giardini. Sono, però, vedete chiusi dalle mura dei palazzi circostanti e separati da una rete e dalla strada.

In questo caso non è più la natura a essere tenuta lontana e dominata, in questo caso, e questo secondo me è un po' l'interesse che hanno questi giardini, è la stessa natura che deve essere salvaguardata dalla grande spinta che ha l'uomo, dalla maglia geometrica di una città come New York o come tante altre città in tutto il mondo.

Esperienze di giardini urbani, racconta Pasquali, in diversi incontri tra 2008-2009 al festival, ce ne sono molte, alcune hanno lunga vita, altre sono temporanee, per esempio i temporary garden di Berlino o di Losanna dove i proprietari di un terreno accettano la sfida di cederlo per un periodo a volte anche breve ad associazioni o istituzioni locali che sviluppano un progetto a termine. Ci sono parchi mobili, piantumazioni di alberi da frutta o di aiuole a orto per la produzione in pieno ambiente urbano. In molti casi questi luoghi verdi consentono alle persone di costruire una rete di relazioni, a volte anche di produzione che era impensabile nei decenni passati. A volte sono la chiave di volta per un progetto educativo come gli orti scolastici di cui parla ancora Pia Pera.

Pia Pera: Il giardino come progetto, come modo di vita, come spunto di mille riflessioni non avrà un futuro a meno di fare sì che fin da piccoli i bambini conoscano questa esperienza formativa fondamentale che o la conosci o non ci arrivi, una cosa che devi avere provato, non ti arriva dalle parole di un altro.

Quindi il giardino capace di rispondere a questo bisogno urgente, molto urgente del nostro tempo, del tempo in cui viviamo, sarà un giardino semipubblico in realtà, il giardino del cortile della scuola tenuto non solo dai bambini e dai maestri, ma anche dai nonni, dai bidelli, dai genitori, specie quando le scuole sono chiuse. Sarà un orto che sia anche un giardino che abbia alberi, fiori, cespugli ed erbe spontanee.

Dovrebbe essere un luogo dove si impara a conoscere la natura, ma soprattutto, e questa è una esperienza fondante di libertà, fondamentale anche per il nostro vivere civile, per superare questa malattia che è l'atteggiamento verso il mondo che è quello passivo del consumatore, quindi deve essere un luogo dove soprattutto si fa esperienza di quella tranquilla felicità che solo la natura può trasmettere.

Allora bisogna formare, allevare piccoli giardinieri, persone che sappiano con certezza, per esperienza loro dove andare a cercare quella felicità tanto speciale che è una felicità a portata di mano, una felicità che non abbiamo bisogno di andare a chiedere ad altri o ad altro nell'orto, nel giardino o anche nel pezzetto di natura lasciato indisturbato nel cortile di scuola, lì un bambino imparerà ad attingere alle energie della terra, a vivere l'esperienza cruciale per lo sviluppo della creatività, non importa poi in quale ambito, del libero scorrere delle energie.

I temi dell'abitare, del vivere, gli spazi urbani dunque sono molteplici, ci sono zone delle città, delle periferie che in passato brulicavano di attività industriali, artigianali, commerciali, oggi le città sono ridefinite anche da economie diverse, molte di queste costruzioni sono state abbandonate. Stefano Boeri riflette sulla necessità di un grande progetto che si occupi anche di queste strutture, così come della riorganizzazione e messa in sicurezza di tutto il patrimonio abitativo in Italia, ci dice Boeri, ci sono 12 milioni di case di cui 8 milioni costruite nel secondo dopoguerra, spesso con materiali scarsi e senz'altro senza i criteri di impatto ambientale, o meglio di basso impatto ambientale, cui tanto teniamo oggi. Ci sarebbe, dice Boeri, spazio per un grande progetto di rinnovamento edilizio che si basi anche su materiali molto più interessanti e sicuri, come ad esempio il legno.

Stefano Boeri: Quindi ci sarebbe un grande progetto per questo Paese, che sarebbe un progetto straordinario perché muoverebbe delle filiere produttive che vanno ovviamente dalla piccola impresa, dalla media impresa edilizia fino al sistema degli arredi, al sistema del terzo settore, dell'accompagnamento dei cittadini, è un mondo intero che muoverebbe un'economia. Ci vorrebbe, lo dico spesso, una City Act, dopo il Jobs Act, un City Act avrebbe anche più forza, sarebbe una grande rivoluzione.

I boschi sono cresciuti, ma di tanto si parla di percentuali del 10-15% negli ultimi 10 anni. Come mai noi abbiamo continuato a costruire e i boschi crescano? Perché mentre costruivamo tra Milano e Monza, tra Firenze e Pistoia, tra Napoli e Caserta, nelle piane, nelle coste, nelle montagne, in luoghi straordinari, rovinando, distruggendo natura, abbandonavamo quei centinaia di piccoli centri che costituivano il presidio per le attività. agricole per esempio. E l'abbandono delle aree agricole significa lasciare a una forestazione spontanea spazi. E l'abbandono di spazi, come quelli di cui parlavamo prima, attorno ai centri storici, significa lasciare a una forestazione spontanea, come dire, il modo di potersi espandere.

Allora, è questo paradosso che deve farci pensare. Per questo dico, facciamo un progetto che metta in moto questo ciclo. Riprendersi cura delle foreste, vuol dire riprendersi cura di un sistema economico, oltre che, lasciami dire, una scommessa bellissima. Perché il nostro è un paese di boschi e foreste. Guardate quanti giovani oggi vivono con emozione la possibilità di un ritorno non nostalgico, ma creativo, sperimentale, produttivo, forte, rispetto a questo rapporto con la natura. Sarebbe una scommessa che, tra l'altro, la politica potrebbe fare con grande forza.

Concludiamo questo percorso proprio sui nuovi movimenti che ragionano e riflettono su come recuperare, abitare, rendere vivibili spazi che non sono solo quelli urbani. Un ritorno alla natura che non è nostalgico, che vuole essere creativo, innovativo, ma che riconosce anche un grande valore all'immenso patrimonio culturale rappresentato dai piccoli centri, dai borghi, dalla vita diffusa sul territorio e non concentrata solo nelle città. Sulla necessità di non perdere queste culture lavora molto Franco Arminio, poeta, saggista, regista e come si definisce lui stesso paesologo. E proprio sulla paesologia e sulla necessità di non perdere la cultura, le parole e le storie di chi vive nei piccoli paesi, sentiamo Arminio.

Franco Arminio: Tra l'altro quando parliamo di geografia parliamo dell'importanza dello spazio, non solo dei luoghi, ma dello spazio che c'è tra i luoghi. Io quando vengo nella pianura Padana certe volte ho la sensazione, non felicissima, di stare in una grande azienda con delle bellissime città e con dei paesi dentro, ma sostanzialmente il clima generale è come se fosse una grande azienda e c'è una paesologia dell'Appennino, i luoghi che più conosco, ma c'è una questione paese, c'è una questione periferia, c'è una questione margine anche nel cuore della pianura Padana, per non parlare delle Alpi.

Il tema dello spopolamento, il tema del trasloco più o meno violento dai piccoli centri ai grandi centri riguarda tutta l'Italia. Il dolore, il dolore della desolazione, i luoghi marginali non lo racconta nessuno. Ecco, questo fa semplicemente la paesologia, andare nei luoghi dove non va nessuno a fare quello che io chiamo turismo della clemenza. Semplicemente andare a fare compagnia a un luogo. Quello che faccio semplicemente è parlare con i vecchi, che è una, si può dire il prodotto tipico, sembra strano, si parla tanto di prodotti tipici, in realtà il vero prodotto, quello che producono i paesi adesso è la vecchiaia.

La novità di questa azione che sto svolgendo è che si sta un po' diffondendo. In questo momento, mentre io parlo, in un paese in provincia di Varese, l'anno scorso andammo a Piero, 16 abitanti, adesso siamo a Lozzo, la vicina, c'è in atto un festival della paesologia. Cioè sta nascendo una piccola comunità di persone che in varie parti di Italia prova a fare delle cose vere in luoghi veri nell'idea che appunto questi luoghi non sono luoghi destinati a morire, ma sono i luoghi del futuro. 

Anche l'UNESCO sta riscoprendo i villaggi. È demenziale l'idea che tutta l'umanità debba centrarsi in pochi grandi agglomerati. È demenziale, è criminale, è pericoloso. Quindi anche da Mantova, da qualsiasi posto, noi dobbiamo ribadire la necessità di riportare le persone nei luoghi più sani che sono le piccole comunità.

 

Oltre Natura è un podcast del Festivaletteratura di Mantova. Le voci che ascoltate sono state selezionate dall'archivio pluriennale del festival, consultabile al sito archivio.festivalletteratura.it. La produzione è di FACTA.eu, per un progetto ideato e realizzato da Elisabetta Tola e Giulia Bonelli.

 


Credits

You have listened to Oltrenatura, a podcast produced for Festivaletteratura by FACTA.eu.

The concept, interviews and writing are by Giulia Bonelli and Elisabetta Tola.

Oltrenatura, available on festivaletteratura.it and wherever you listen to your podcasts (Spreaker and Spotify).

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